Placido e Rubini in scena |
Un lunedì di gennaio, uno strano
giorno in verità, un po’ caldo per questo periodo dell’anno, a Castellammare di
Stabia, arriva zio Vanja. E’ pur sempre un lunedì e il giorno dopo la sveglia
del pendolare suonerà, ma l’attrazione per quest’opera di Checov è forte. L’avevo vista solo nell’ultimo lavoro di quel
genio di Louis Malle. Il regista del Danno si congedò dal mondo facendo “Vanja
sulla quarantaduesima strada”, in cui zio Vanja è Wallace Shaw e la bella Elena,
un’incantevole Julianne Moore. Qui Vanja è Sergio Rubini, Elena Lidya Liberman
e la regia è sempre quella di un regista cinematografico, ma stavolta italiano,
Marco Bellocchio. Un’occasione da non perdere allora, il giorno successivo si
va in scena al Bellini ma Napoli diventa una meta troppo articolata per chi
come me sta sempre in viaggio, meglio la mia città, quindi. Anche perché in
questo tempo triste che sta attraversando, una delle poche buone iniziative
culturali va pur sempre incoraggiata. E le attese non sono deluse. L’opera è di
un Checov collatore di sospiri e
melanconie. Bellocchio lo rispetta, fa sussurrare le battute ai bravi attori. E
il testo ti coinvolge. Rubini interpreta uno zio Vanja consapevole sino al
midollo del proprio dramma, quasi autoironico. E il gran trombone di Serebrjakov,
nei cui panni si cala Michele Placido, regge bene il tratto d’ironia con cui si
consuma il rapporto, tra l’ex venerato, che allo svelarsi è in tutta la sua
pochezza, e i suoi veneranti delusi da quell’epifania, tra cui oltre a Zio
Vanja, c’è la “brutta” figlia Sonja, qui interpretata da una bella e brava Anna
Della Rosa. Le vicende narrate son banali, ma la storia che racconta Anton
Checov colpisce come una staffilata in pieno cuore. E guardando quelle scene
minimal, tutte fatte di quel legno con cui “son devastati i boschi”, sei
fiondato in quella monotona e ordinaria vita di campagna, che può albergarsi
ovunque anche qui nel nostro meridione, in cui s’intrecciano fuochi di
passione, spenti da rifiuti o da mancanza di coraggio nell’intraprendere. Al
calar del sipario vorresti non assecondare quell’arrendevole concetto di vita, che
s’incarna nelle ultime parole di Sonja: “Che fare? Bisogna vivere! Noi vivremo, Zio Vanja. Vivremo una lunga, una
lunga sequela di giorni, di interminabili sere. Sopporteremo pazientemente le
prove che ci manderà la sorte. Faticheremo per gli altri, adesso e in
vecchiaia, senza conoscere tregua. E quando verrà la nostra ora, moriremo con
rassegnazione e là, oltre la tomba, diremo che abbiamo patito, pianto, sofferto
amarezza...”. Devi affrontare quel che resta ancora della notte, perché
all’indomani la sveglia suonerà nuovamente alle cinque per l’ennesima
ripartenza, il quotidiano viaggio, da cui pretendi un vivere non arrendevole. Pensando
che almeno stasera quel frammento di sonno che farai sarà cullato da questo inusuale
caldo, di uno strano lunedì di gennaio in cui nella tua città hai incontrato
zio Vanja.
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